Come noto, l’art. 2948, n. 4, c.c. dispone che si prescrivono in cinque anni “gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi” per cui le somme corrisposte dal datore di lavoro al lavoratore con periodicità annuale o infrannuale sono soggette alla prescrizione quinquennale.
Con la sentenza n. 63 del 10 giugno 1966 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2 e 2956, n. 1, c.c., nella parte in cui consentivano la decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro in costanza di rapporto di lavoro, per effetto della condizione di subalternità del lavoratore a fronte del potere del datore di risolvere il rapporto di lavoro.
In seguito e in estrema sintesi, entrati in vigore la legge n. 604/1966 e l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. n. 1268/1976) hanno circoscritto l’applicazione del principio di differimento della prescrizione ai soli rapporti di lavoro non dotati di stabilità, sottolineando, in particolare, che è dotato di stabilità quel rapporto di lavoro in cui il giudice può, sostanzialmente, rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo.
Prima dell’entrata in vigore della legge n. 92/2012 (cd. legge Fornero), quindi, le sorti del principio di differimento della prescrizione dei crediti di lavoro erano legate all’ambito di applicazione della sola tutela indennitaria, restando fermo, invece, il principio della decorrenza in costanza di rapporto di lavoro per quei rapporti soggetti alla tutela reintegratoria, prevista dall’art. 18.
Con l’entrata in vigore della legge Fornero (18 luglio 2012) e, poi, del cd. Jobs Act (D. Lgs. n. 23/2015), parte della giurisprudenza di merito (in primis il Tribunale di Milano) ha ritenuto di scorgere una causa di sospensione della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro anche con riferimento ai rapporti di lavoro per i quali trovi applicazione l’art. 18; ciò in quanto “il timore della perdita del posto di lavoro in tempi di crisi economica, che comporta sempre più spesso l’intimazione del licenziamento per motivo oggettivo, tutelato solo in via indennitaria ad eccezione delle ipotesi di manifesta infondatezza dei motivi, dal 18.07.2012 appare reale e idoneo ad impedire al lavoratore di proporre rivendicazioni retributive nei confronti del datore di lavoro, per timore di subire un provvedimento espulsivo, poiché contro il medesimo, in ipotesi di illegittimità, egli può non venire più tutelato in maniera forte, bensì solo con il pagamento di una somma di denaro, insufficiente alle sue stabili esigenze di vita” (in tal senso, tra le tante Tribunale di Palermo, dott.ssa Marino n. 3508/2021).
A detto orientamento, invero maggioritario, ha replicato altra giurisprudenza, la quale ha precisato che “la tutela cd. reale contemplata dall’articolo 18 Statuto lavoratori, benché più circoscritta rispetto al passato, è tuttavia ancora operante, non soltanto per l’ipotesi di licenziamento ritorsivo o altrimenti nullo, ma anche con riferimento al recesso datoriale non sorretto da giustificato motivo soggettivo o da giusta causa, qualora il fatto contestato non sussista oppure non rientri fra le condotte punibili con una sanzione conservativa (articolo 18, comma 4); analoga tutela è prevista nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, quando emerga la manifesta insussistenza del fatto posto a base del recesso (articolo 18 comma 7)”, pervenendo alla conclusione che, anche successivamente alla l. n. 92/2012, “il lavoratore dipendente di un’azienda soggetta al regime dell’articolo 18 benefici tuttora, in caso di licenziamento, di una tutela più ampia ed incisiva rispetto a quella riconosciuta al suo omologo, il cui rapporto di lavoro ricada nella sfera di applicazione dell’articolo 8, L. 604/1966” (in tal senso, Tribunale Torino, 08.01.2020; Tribunale Roma n. 4125/2018; Corte di Appello di Milano n. 89/2020; Corte di Appello di Brescia n. 259/2022).
Con sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022, a distanza di oltre dieci anni dall’entrata in vigore della legge Fornero, la Corte di Cassazione ha preso posizione in merito a detta rilevante questione, avallando, sostanzialmente, l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di merito, in base al quale la prescrizione non decorre più in costanza di rapporto di lavoro anche per i rapporti di lavoro per i quali si applichi l’art. 18.
La Suprema Corte, ritenuto che il nuovo quadro normativo non assicuri una adeguata stabilità del rapporto di lavoro, ha affermato che, a seguito della entrata in vigore della legge Fornero, sussista una condizione obiettiva di metus del dipendente nei confronti del datore di lavoro, “per effetto di un’immediata e diretta correlazione eziologica tra l’esercizio (obiettivamente inibito) di una rivendicazione retributiva del lavoratore e la reazione datoriale di licenziamento in ragione esclusiva di essa”.
Ciò comporta, a detta del giudice di legittimità, non la sospensione della prescrizione, ai sensi dell’art. 2941 c.c., stante la tassatività delle ipotesi ivi previste, bensì, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., la decorrenza originaria del termine di prescrizione dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012.
La Corte ha, quindi, enunciato il seguente principio di diritto:
“Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.
Ebbene, in questa sede, non è possibile, ovviamente, ripercorrere ex professo l’interessante iter logico giuridico seguito dal Giudice di legittimità; va, però, evidenziato che la Corte ha ritenuto che le conclusioni sopra trascritte alle quali essa è pervenuta non fossero scalfite dai principi affermati dalla Corte Costituzionale con alcune pronunzie, che hanno notevolmente ampliato l’ambito della tutela reintegratoria.
Con la sentenza n. 125/2022, infatti, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del novellato testo dell’art. 18, comma 7, della legge n. 300 del 1970 nelle parti in cui prevedeva, ai fini della reintegrazione del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, l’insussistenza “manifesta” del fatto posto alla base del recesso; con altra sentenza (n. 59/2021) è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della medesima norma nella parte in cui prevedeva che il giudice potesse ma non dovesse (dovendosi leggere “può” come “deve”) disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
Con la sentenza n. 194/2018 il giudice delle leggi ha ritenuto che anche l’indennità risarcitoria, prevista dall’art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 23 del 2015, sia idonea “a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente”.
E’ un dato di fatto, pertanto, che l’ambito di applicazione della tutela reintegratoria, dapprima notevolmente ridimensionato sino ad apparire una forma di tutela del tutto residuale, sia divenuto ben più ampio per effetto dei numerosi interventi della Corte Costituzionale e anche della stessa Corte di Cassazione, che hanno determinato, da una parte, l’allargamento dell’ambito di applicazione della tutela reintegratoria e, dall’altra, correlativamente, il restringimento della tutela economica/indennitaria.
Basti pensare ai principi affermati in tema di licenziamento disciplinare con riferimento all’insussistenza del fatto contestato (Cass. n. 14054/2019; conformi Cass. nn. 20540/2015, 18418/2016, n. 11322/2018) o di licenziamento disciplinare intimato in difetto della contestazione (Cass. n. 25745/2016) o, ancora proprio di recente, a proposito dell’inclusione del fatto, da parte delle previsioni dei contratti collettivi, tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, così consentendo al giudice di sussumere la condotta addebitata al lavoratore e in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa anche qualora sia espressa attraverso clausole generali o elastiche (Cass. n. 13065/2022).
La Corte di Cassazione, con la sentenza che si commenta, ha, però, ritenuto che, nonostante l’ampliamento della tutela reintegratoria, permanga, comunque, quella condizione di metus del lavoratore che, di fatto, impedisce allo stesso di reclamare i propri diritti.
Riepilogando, allora, i principi enunciati dalla Corte di Cassazione con la pronunzia n. 26246/2022, più di recente integralmente confermati con sentenza n. 30957 del 20 ottobre 2022, possono così sintetizzarsi:
- successivamente all’entrata in vigore della legge Fornero (18 luglio 2012), i rapporti di lavoro a tempo indeterminato non sono assistiti da un regime di stabilità e, pertanto, per tali rapporti, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione degli stessi;
- i diritti per i quali si applica il principio appena trascritto alla lettera a) sono tutti quelli che non risultano ancora prescritti alla data di entrata in vigore della legge Fornero;
- in particolare, per quanto attiene ai crediti retributivi per i quali opera la prescrizione quinquennale e, quindi, per tutti i crediti maturati a far data dal 18 luglio 2007 in poi, la prescrizione inizierà a decorrere dalla cessazione del rapporto di lavoro;
- correlativamente i crediti anteriori alla data del 18 luglio 2007, in assenza di atti interruttivi della prescrizione, devono, invece, ritenersi ormai prescritti;
- restano esclusi dall’applicazione del principio della decorrenza della prescrizione all’atto della cessazione del rapporto di lavoro i rapporti di pubblico impiego e, ovviamente, i casi in cui trovi applicazione l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori nel testo anteriore all’entrata in vigore della legge Fornero.
Per concludere, non si può fare a meno di sottolineare la situazione davvero paradossale che, per oltre un decennio, ha interessato un istituto, quale la prescrizione, che dovrebbe mirare al conseguimento dell’obiettivo, purtroppo utopico, della certezza del diritto.
Basti considerare che l’Ispettorato Nazionale del lavoro, con la nota n. 595 del 23 gennaio 2020, aveva impartito la direttiva che “il personale ispettivo dovrà considerare solo i crediti da lavoro il cui termine quinquennale di prescrizione, decorrente dal primo giorno utile per far valere il diritto di credito anche se in costanza di rapporto di lavoro, non sia ancora maturato” per poi adeguarsi ai principi enunciati dalla Suprema Corte con la sentenza n. 26246/2022, stabilendo, a modifica delle precedenti direttive, che “il personale ispettivo dovrà considerare oggetto di diffida accertativa i crediti (certi, liquidi ed esigibili) di cui il lavoratore dipendente è titolare tenuto conto che il dies a quo del termine di prescrizione quinquennale inizierà a decorrere solo dalla cessazione del rapporto di lavoro”.
Sarebbe stato auspicabile, allora, che il legislatore avesse valutato, con maggiore attenzione, i possibili effetti del mutato quadro normativo sulla prescrizione dei crediti retributivi, prendendo atto, conseguentemente, della necessità di dettare una regolamentazione che fornisse indicazioni certe e precise a tutti gli operatori e, in primo luogo, ai lavoratori e ai datori di lavoro; e che detta necessità sia venuta meno, ad avviso dello scrivente, appare sinceramente dubbio.
Avv. Gerlando Calandrino, socio fondatore Unione Avvocatura Siciliana