Tra i rischi che il datore di lavoro deve valutare per salvaguardare la salute e la sicurezza dei dipendenti rientra anche la valutazione dei rischi correlati allo stress.
Lo stress da lavoro è definito come la sensazione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste del contenuto, dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro eccedono le capacità individuali di fronteggiarle.
Lo stress sul posto di lavoro può essere provocato da una varietà di fattori tra cui:
-carico di lavoro eccessivo o insufficiente
-monotonia delle mansioni
– orari di lavoro particolarmente pesanti
– multitasking
– tempi di recupero non adeguati
– mancanza di spazio decisionale.
Una realtà lavorativa nella quale la situazione stressogena sia costante (c.d. straining), può comportare disturbi e problematiche di vario genere sia fisiche che psicologiche, comprese disattenzioni lavorative che possono indurre il lavoratore ad aumentare la probabilità di accadimenti infortunistici.
In ambito lavorativo lo stress può essere di 2 tipi: stress derivante dalla tipologia di lavoro svolto nonché quello derivante dalle modalità organizzative dell’attività lavorativa.
Nella prima categoria rientrano professioni che, per le responsabilità che implicano o per il tipo di attività svolta, sono in sé particolarmente stressanti (vedi ad esempio medico, avvocato, chirurgo, poliziotto).
Nel secondo tipo rientrano, invece, quei casi di stress ingenerato dall’organizzazione del lavoro come nel caso di predisposizione di turni ed orari inadeguati, mansioni complicate, elevate aspettative di rendimento, mancanza di formazione appropriata sulle attività da espletare, carenze in ambito di sicurezza o strumentali, mancanza di personale rispetto ai carichi di lavoro.
Frequente derivazione dello stress occupazionale è il c.d. burnout, che letteralmente significa “bruciato internamente”; esso rappresenta una sindrome da esaurimento emotivo diffusa soprattutto nelle professioni stressanti (ad es. quelle che prevedono un costante contatto con il pubblico) o in quelle che sollecitano particolarmente l’emotività del lavoratore (ad es. quando si ha un costante contatto con la sofferenza umana).
Dal punto di vista normativo, in Italia la nozione di rischio da “stress lavoro-correlato”, è stata trasfusa nel d.lgs. n. 81/2008, ossia il Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, con il quale il legislatore ha certamente voluto ampliare il concetto di rischio, non più esclusivamente correlato con un eventuale danno per la salute fisica, ma legato al benessere psico-fisico e alla complessiva integrità della persona, rivalutando così la dimensione psicologica e rafforzando la pluridirezionalità della valutazione dei rischi, che deve guardare, quindi, non solo verso i rischi “tradizionali”, ma anche verso quelli “immateriali”.
Da una generale carrellata delle fonti che rilevano sul tema della salute del lavoratore, possiamo notare che l’art 28 D. lgs 81/2008, non fornendo una propria definizione dello stress lavoro correlato, rinvia ai contenuti ed alle definizioni dell’Accordo quadro Europeo sullo stress nei luoghi di lavoro del 2004 nonché, con riferimento alla procedura di valutazione del rischio, alle indicazioni elaborate dalla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro ( si veda l’ art. 6, comma 8, lett. m-quater D. Lgs. 81/2008) diffuse con circolare del Ministero del lavoro del 18 novembre 2010.
Ultimo elemento del mosaico di fonti appena enunciate è rappresentato dalle linee guida elaborate dall’Inail, che si basano sull’impianto costruito dalla Commissione e ne condividono i principi ispiratori.
Meritevoli di menzione, accanto al citato T.U., sono altresì le disposizioni civilistiche e di rango Costituzionale che rilevano sul tema della salute e del benessere dei lavoratori.
Con riferimento alle disposizioni di rango Costituzionale appare opportuno menzionare gli artt. 32, 35 e 41 dai quali si evince che il diritto alla salute è un diritto fondamentale dell’individuo e che costituisce un limite all’esercizio dell’iniziativa economica che, di conseguenza, può esercitarsi solo nel rispetto di precise regole dirette alla tutela dell’integrità del lavoratore.
In merito, invece, alle disposizioni civilistiche l’art. 2087 c.c. dispone che “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Da tale norma sorge il divieto per il datore di lavoro non solo di compiere direttamente qualsiasi comportamento lesivo della integrità psico-fisica del prestatore di lavoro, ma anche l’obbligo di prevenire e neutralizzare tale tipo di condotte negative poste in essere dai superiori gerarchici, dai preposti o da qualunque dipendente nell’ambito dello svolgimento dell’attività lavorativa.
Fatta una generale premessa sulle varie fonti che si intersecano sul tema della tutela della salute psico-fisica del lavoratore, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza 11 novembre 2022, n. 33428, è tornata a pronunciarsi sullo straining, che, pur apparentato tradizionalmente al mobbing, si distingue da quest’ultimo per essere una figura comparsa più di recente nelle aule giudiziarie.
La Suprema Corte di Cassazione, nell’operare un’interpretazione estensiva dell’art. 2087 c.c., ha inteso delineare accuratamente le condotte sussumibili nel più tenue paradigma strainizzante, ponendo altresì in luce le differenti caratteristiche rispetto al fenomeno del mobbing.
Il caso nasce da un ricorso al Giudice di legittimità per la riforma della sentenza resa dalla Corte d’Appello di Genova la quale non riconosceva la risarcibilità del danno non patrimoniale da straining escludendo, altresì, la sussistenza di un grave demansionamento e di condotte mobbizzanti ai danni di un informatore scientifico che lamentava di essere stato costretto, sin dal 2012, a svolgere attività di carattere promozionale estranea alla propria figura professionale e di essere stato vittima di continue vessazioni da parte del capo area.
La Cassazione ha accolto il ricorso del lavoratore per violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. in relazione all’art 2103 c.c. nonché dell’art 122 del D.lgs. n. 219/2006 ed inoltre per errata valutazione nel ritenere aderente alla professionalità del ricorrente il suo essere sottoposto alla direzione marketing, rilevando come il Giudice di seconde cure non abbia tenuto conto del fatto che l’obbligo datoriale di protezione di cui all’art. 2087 c.c. ricomprende anche il dovere di tutelare i dipendenti da tecnopatie dovute a costrittività organizzativa e di astenersi dall’adottare iniziative che possano determinare il crearsi di condizioni lavorative stressogene (c.d. straining).
Il datore di lavoro, pertanto, è tenuto a garantire che i soggetti posti alle sue dipendenze non subiscano, nello svolgimento delle loro attività, danni alla salute psico-fisica e potrà essere condannato al risarcimento del danno in favore del lavoratore a seguito dell’inadempimento dei propri doveri di tutela della salute fisica e psichica dei lavoratori.
Avv. Manlio Melita, segretario della Sezione UAS di Messina.