Lo scorso 12 aprile, dopo un lungo e travagliato iter, è stato approvato in via definitiva dalla Camera dei Deputati il disegno di legge contenente “Disposizioni in materia di equo compenso delle prestazioni professionali”. Il testo non è stato ancora pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.
Cercheremo di fornire una prima lettura del testo, evidenziando le tante novità positive e soffermandoci sulle possibili criticità.
***
L’art. 1 del provvedimento definisce come equo compenso “la corresponsione di un compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale”, nonché conforme ai compensi previsti, per gli Avvocati, dal decreto ministeriale contenente i parametri forensi, per le altre professioni regolamentate nel sistema ordinistico, dai decreti emanati dai Ministeri vigilanti contenenti i criteri per liquidazione in sede giudiziale, per le professioni non organizzate in ordini e collegi, dagli emanandi decreti del Ministero delle Imprese e del Made in Italy.
Al di là della definizione certamente non innovativa di “equo compenso” il dato significativo appare il riferimento esplicito ai parametri, che fornisce una concretezza numerica al concetto altrimenti astratto e suscettibile di variegate interpretazioni giurisprudenziali di equo compenso.
Una criticità che andrà risolta è rappresentata dal mancato aggiornamento dei parametri relativi alle professioni ordinistiche, ad eccezioni di quelli forensi, adeguati alla fine del 2022. A tale scopo, la Legge prevede un obbligo di revisione biennale dei parametri.
L’art. 2 stabilisce l’ambito di applicazione della nuova disciplina, precisando che essa riguarda le prestazioni d’opera intellettuale svolte nell’ambito di convenzioni o accordi in genere sottoscritti tra professionisti o società di professionisti, da una parte, e società assicurative e/o bancarie e grandi imprese (quelle con oltre 50 dipendenti), pubbliche amministrazioni e società a partecipazione pubblica, dall’altra. Le condizioni affinché operi la nuova disciplina di protezione, dunque, sono tre: 1) deve trattarsi di prestazioni d’opera intellettuale regolare dall’art. 2230 c.c.; 2) il rapporto deve essere regolato da una convenzione o contratto; 3) il cliente deve possedere alcuni requisiti che lo qualifichino come contraente forte.
Una inspiegabile esclusione, prevista dal comma 3°, è rappresentata dagli incarichi conferiti dagli agenti della riscossione, che dovranno limitarsi a rispettare il limite generico dell’adeguatezza alla prestazione ma senza alcun riferimento ai parametri.
L’art. 3 costituisce il cuore del provvedimento, stabilendo, al comma 1°, la nullità parziale dei contratti professionali che prevedano un compenso non equo, ritenendosi tale quello inferiore ai parametri di cui all’art. 1, e, al comma 2°, la nullità delle clausole che impongano al professionista di svolgere la sua prestazione senza acconti o anticipando le spese.
Lo stesso comma 2°, poi, amplia il novero della clausole vessatorie anche a quelle pattuizioni che, pur non avendo direttamente ad oggetto il compenso, attribuiscano uno sproporzionato vantaggio al cliente ed, in particolare, tra le altre, a quelle che gli consentano di modificare unilateralmente le condizioni del contratto, di pretendere prestazioni aggiuntive a titolo gratuito dal professionista o l’anticipazione delle spese, di imporre termini di pagamento superiori a 60 giorni dal ricevimento della fattura, di costringere l’Avvocato a rinunciare, nel caso di liquidazione giudiziale delle spese, alla parte eccedente del compenso liquidato rispetto a quello pattuito.
La nullità delle suddette clausole vessatorie non travolge, ovviamente, l’intero contratto, trattandosi di nullità di protezione, parziale e relativa, che può essere fatta valere unicamente dal professionista o rilevata ex officio dal Giudice (commi 4° e 5°).
I commi 6° e 7° disciplinano lo strumento processuale a disposizione del professionista leso nel suo diritto ad un compenso equo, prevedendo la possibilità per lo stesso di “impugnare” il bando, la convenzione, l’affidamento o, comunque, qualsiasi accordo innanzi al Tribunale competente per il luogo (che è quello di residenza del professionista) al fine di far accertare l’invalidità della clausola ed ottenere la rideterminazione del compenso in base ai parametri di riferimento tenuto conto dell’attività effettivamente prestata, da provare anche mediante la produzione del parere di congruità rilasciato dal proprio Ordine professionale, e, ove indispensabile, previo svolgimento di una CTU.
Di particolare interesse appare l’esplicito ed innovativo riconoscimento del valore probatorio del parere di congruità sulla natura, le caratteristiche ed i risultati della prestazione professionale, finora sempre disconosciuto dalla giurisprudenza se non ai fini dell’emissione dell’ingiunzione di pagamento, tale da rendere residuale (“ove sia indispensabile ai fini del giudizio”), lo svolgimento della consulenza tecnica d’ufficio (almeno nelle intenzioni del Legislatore).
Si segnala che la norma contenuta nell’art. 6 fa riferimento genericamente al “Tribunale”, da non intendersi necessariamente in quello ordinario, dovendosi tenere conto del riparto di giurisdizione tra Giudice ordinario e Giudice amministrativo laddove ad essere contestati siano bandi o regolamenti emanati da PP.AA. o enti pubblici.
L’art. 4 contiene una disposizione che potrebbe, davvero, operare come deterrente agli eventuali tentativi dei clienti più forti di imporre, comunque, il proprio peso contrattuale sui quei professionisti inclini ad accettare un compenso iniquo pur di ottenere gli incarichi, facendo affidamento anche sulla continuità del rapporto. Per evitare ciò, il Legislatore ha previsto che il Giudice, nel caso in cui accerti l’iniquità del compenso, dovrà, previa rideterminazione del compenso, condannare il cliente al pagamento della differenza e potrà (si tratta, dunque, di una facoltà) condannarlo al versamento di un indennizzo nei confronti del professionista fino al doppio della medesima differenza, salvo il risarcimento dell’eventuale maggiore danno. Tale misura sanzionatoria dovrebbe scoraggiare i clienti più “ostinati” ed incoraggiare i professionisti più “resilienti”.
L’art. 5 contiene una serie di disposizioni volte a regolare alcuni aspetti dell’equo compenso, come disciplinato dai precedenti articoli, ed, in particolare, ad agevolare il professionista che voglia agire in giudizio.
Nel dettaglio, il comma 1° introduce una presunzione di “unilateralità” nella predisposizione del contratto professionale con i clienti “forti”, come definiti all’art. 2. Occorre, in proposito, fugare immediatamente un possibile dubbio: una convenzione che preveda un compenso iniquo ai sensi dell’art. 1 è parzialmente nulla a prescindere dal contraente che ne abbia predisposto il contenuto, non essendo prevista alcuna “prova contraria” e non rilevando neppure la specifica approvazione: lo dimostra il successivo art. 8 che qualifica come condotta disciplinarmente rilevante quella del professionista che, avendo redatto il testo del contratto contenente la pattuizione sul compenso iniqua, non informi l’altro contraente della possibile nullità del contratto. Deve, dunque, ritenersi che la presunzione di “unilateralità” abbia la finalità di agevolare l’interpretazione delle clausole contrattuali, soprattutto di quelle non riguardanti il compenso, al fine di accertarne l’eventuale vessatorietà, rendendo applicabile il disposto dell’art. 1370 c.c., secondo cui le clausole predisposte unilateralmente da uno dei contraenti si interpretano, nel dubbio, a favore dell’altro.
Il comma 2° individua il dies a quo del termine di prescrizione al compenso (equo) nel momento in cui cessa il rapporto professionale regolato dalla convenzione di cui all’art. 2, precisando che, nel caso di pluralità di prestazioni, la prescrizione comincia a decorrere dal compimento dell’ultima.
I commi 4° e 5° attribuiscono agli Ordini ed al Collegi professionali alcune specifiche facoltà in tema di equo compenso: il primo riconosce agli organi istituzionali la legittimazione ad agire in giudizio in caso di violazione delle norme sull’equo compenso, intervenendo ad adiuvandum o, addirittura, surrogandosi nelle posizione del singolo iscritto; il secondo, invece, demanda ad Ordini e Collegi il potere di introdurre disposizioni che sanzionino i professionisti che non rispettino l’obbligo (questo è) di pattuire un compenso equo o che si sottraggano agli obblighi di informare i clienti che eventuali accordi in violazione delle norme sull’equo compenso sarebbero soggette alla nullità, ma questo solo nel caso (in verità, remoto) di convenzioni redatte unilateralmente dal professionista.
L’art. 6 prevede la possibilità che le imprese (non si fa cenno invece alle PP.AA.) di stipulare modelli di convenzione con gli Organi istituzionali rappresentativi da applicare poi nei rapporti con i singoli professionisti, che individuino anche il compenso, che si presume equo fino a prova contraria.
L’art. 7 (unica disposizione modificata dal Senato prima della definitiva approvazione da parte della Camera) introduce uno strumento snello per il recupero del credito professionale, stabilendo che il parere di congruità rilasciato dai competenti Ordini o Collegi diventi titolo esecutivo, ove non opposto dal cliente entro 40 giorni dalla sua notifica da parte del professionista mediante ricorso da proporre nelle forme del nuovo rito semplificato, ai sensi dell’articolo 281 undecies del c.p.c., davanti al tribunale in composizione monocratica del luogo nel cui circondario ha sede l’ordine o il collegio professionale che lo ha emesso. Il richiamo contenuto nel secondo comma alle norme di cui all’art. 14 D. Lgs. 150/2011, ove compatibili, induce a ritenere che le parti possano stare in giudizio personalmente e, soprattutto, che il provvedimento non sia appellabile.
L’art. 8 interviene sul termine di prescrizione dell’azione di responsabilità professionale, prevedendo che il dies a quo coincida con il giorno del compimento della prestazione da parte del professionista. Tale norma – che si applica esclusivamente ai rapporti regolati dalla nuova Legge, il cui perimetro è delimitato dall’art. 2 – ha lo scopo di precisare che, nell’ambito di una convenzione da cui possano scaturire più incarichi, come quelli normalmente sottoscritti con i clienti “forti”, l’azione di responsabilità, attenendo alla singola prestazione, si prescrive entro il termine (ordinario) decorrente dalla singola prestazione.
L’art. 9 introduce la class action (libro quarto titolo VIII bis del c.p.c.) a tutela dei diritti derivanti dalla nuova Legge sull’equo compenso, attribuendo la legittimazione, oltre che al singolo professionista, anche al Consiglio/Collegio nazionale e (novità assoluta) alle associazioni professionali maggiormente rappresentative.
L’art. 10 istituisce un “Osservatorio nazionale sull’equo compenso” presso il Ministero della Giustizia allo scopo di vigilare sull’applicazione della normativa con l’obbligo di “relazionare” annualmente alle Camere sulla propria attività a conferma del rilievo “pubblicistico” della nuova normativa, che non è posta solo a tutela degli interessi privati dei singoli professionisti ma a presidio di un interesse di portata generale.
Volendo tralasciare l’art. 12 (“Abrogazioni”) e la clausola di invarianza finanziaria di cui all’art. 13, resta da esaminare l’art. 11, che contiene una norma transitoria, in forza della quale le nuove disposizioni “non si applicano alle convenzioni in corso, sottoscritte prima della data di entrata in vigore della medesima legge”. Si tratta, indubbiamente, della disposizione più problematica, in quanto, ove interpretata rigidamente, potrebbe sterilizzare di fatto anche per lungo tempo gli effetti ed i benefici della nuova disciplina. E’ noto, invero, che la maggior parte dei rapporti professionali con banche, assicurazioni, grandi imprese e PP.AA. hanno durata pluriennale. Ebbene, un’interpretazione restrittiva della disposizione determinerebbe che tutte le singole prestazioni o i singoli incarichi svolti dal professionista anche successivamente all’entrata in vigore della nuova Legge rimangano sotto l’egida della vecchia convenzione anche se quest’ultima le remunera con un compenso iniquo. Banche, compagnie assicurative, grandi Società, dunque, avrebbero tutto l’interesse a mantenere in vita le vecchie convenzioni con evidenti limitazioni anche alla concorrenza tra i professionisti. Una differente interpretazione, certamente più coerente con la ratio del provvedimento e con il complesso delle sue disposizioni, che più volte (ad esempio, sulla decorrenza della prescrizione) fanno riferimento alle singole prestazioni, è quella di ritenere applicabili le nuove norme appunto alle singole prestazioni svolte a far data dall’entrata in vigore della Legge, ferma restando l’applicazione delle clausole della convenzione, anche quelle sul compenso, agli incarichi in corso di svolgimento. Sarebbe auspicabile sul punto un intervento interpretativo autentico del Legislatore, onde evitare che la questione sia rimessa alla lettura dei singoli uffici giudiziari con evidenti disparità di trattamento tra situazioni analoghe.
***
In conclusione, pare a chi scrive che, al di là delle criticità sopra evidenziate, la Legge contenga positivi elementi di novità, rafforzando ed ampliando le tutele per tutti i professionisti e scolpendo il principio che questi abbiano diritto ad un compenso proporzionato alla quantità ed alla qualità della prestazione svolta. Non si tratta, dunque, della reintroduzione di tariffe minime o di limitazioni alla concorrenza, come alcuni superficiali iniziali commenti avevano sottolineato, ma di un complesso di norme volte a riequilibrare i rapporti tra i professionisti (soprattutto i piccoli e giovani professionisti) ed i clienti economicamente più forti, che, facendo uso del loro peso contrattuale, sono riusciti negli anni ad imporre condizioni economiche e, più in generale, lavorative inaccettabili ai professionisti con l’effetto di trascinare al ribasso anche la qualità delle prestazioni professionali.
GRUPPO TEMATICO ORDINAMENTO
E DEONTOLOGIA DI UAS