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ESAME PSICHIATRICO E ORIENTAMENTO SESSUALE: LA VICENDA ABERRANTE DI UN AGENTE DI POLIZIA PENITENZIARIA.

Gli organi di stampa hanno riportato con grande enfasi la notizia di una sentenza amministrativa che ha condannato il Ministero della Giustizia al risarcimento dei danni nei confronti di un agente di polizia penitenziaria costretto a sottoporsi ad un test psichiatrico per accertarne l’eventuale omosessualità. Vista l’approssimazione con cui la notizia è stata riportata, si è ritenuto opportuno, da operatori del diritto, approfondire la questione al fine di inquadrarla correttamente nella sua cornice giuridica.

La vicenda processuale trae origine dalla segnalazione di due detenuti della Casa Circondariale di Vercelli, che riferivano che un agente scelto del Corpo di Polizia Penitenziaria, in servizio presso la medesima struttura, avesse rivolto loro avances a sfondo sessuale. L’accusa si è, poi, rivelata priva di fondamento anche in punto di fatto ma questo è un dato del tutto secondario nell’ottica della decisione dei Giudice Amministrativi. A seguito della suddetta segnalazione, l’Amministrazione penitenziaria avviava un procedimento disciplinare nei confronti dell’Agente, nell’ambito del quale lo stesso veniva sottoposto, dapprima, ad un colloquio con il medico competente della struttura e, poi, avviato ad una visita presso la Commissione Medico Ospedaliera di Milano, formalmente finalizzata ad accertarereazione a grave stress e disturbi dell’adattamento ma, in realtà, volta ad indagarne la personalità nell’ottica del menzionato procedimento disciplinare. Detto procedimento si concludeva con l’archiviazione e la C.M.O. confermava la piena idoneità dell’Agente Scelto al servizio.

Tuttavia, quest’ultimo, ritenendo che la condotta della sua Amministrazione, che lo aveva “messo alla gogna”, sottoponendolo a colloqui dal tenore ambiguo e penetranti controlli psichiatrici, finalizzati esclusivamente ad indagare il suo orientamento, avesse determinato in lui uno stato di sofferenza personale, anche tenuto conto della diffusione, all’interno dell’ambiente di lavoro, di informazioni relative alla propria vicenda personale, ha instaurato un giudizio innanzi al TAR Piemonte allo scopo di ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali patiti in conseguenza della sopra descritta condotta illecita della P.A.

Ebbene, il TAR, con la sentenza n. 353, del 9 aprile 2024, ha accolto il ricorso, affermando che la scelta dell’Amministrazione di fare chiarezza sulla “personalità” del dipendente in assenza di elementi concreti che consentissero di ritenere anche solo possibile che lo stesso fosse affetto da un disturbo della personalità, sia stata arbitraria e priva di un valido supporto giuridico, oltreché tecnico-scientifico. Secondo i Giudici Amministrativi, infatti, gli atti posti in essere dal datore di lavoro pubblico sono rivelatori di un’indebita ed inaccettabile sovrapposizione tra l’orientamento sessuale del ricorrente e l’accertamento sul versante psichiatrico, “operando un’illegittima inferenza tra la presunta omosessualità dell’Agente Scelto e l’esistenza di un disturbo della personalità”. Pertanto, ritenuto che la condotta dell’Amministrazione sia stata connotata “quantomeno” da colpa in quanto posta in violazione di regole cautelari di condotta di diligenza e prudenza che devono ispirare la stessa “nella sottoposizione dei propri dipendenti a valutazioni mediche connotate da elevato grado di invasività, quali quelle che attengono alla sfera della personalità e dell’orientamento sessuale”, il TAR, ai sensi dell’art. 2043 c.c., ha condannato il Ministero della Giustizia, al risarcimento dei danni morali patiti dal lavoratore avuto riguardo alla sofferenza interiore derivante dall’essersi visto attribuire lo “stigma” di un disturbo della personalità senza che sussistesse alcun elemento indiziario che deponesse in tale direzione e suggerisse l’opportunità di espletare approfondimenti medico-legali.

Avv. Alessandro Scalia, Presidente di UAS

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