Il numero sempre crescente di avvocati che scelgono di cancellarsi dall’albo professionale, unitamente al numero sempre più esiguo di nuovi iscritti, impone una seria riflessione sulle ragioni di questo fenomeno e, soprattutto, sulle conseguenze che questa diaspora avrà sul sistema giudiziario, e sulla tutela dei diritti dei cittadini.
Le cause del fenomeno in esame sono certamente molteplici e concatenate: l’eccessiva pressione fiscale del nostro paese, l’aumento dei costi di gestione degli studi legali, l’obbligo di iscrizione alla Cassa Forense (con conseguenti oneri previdenziali), l’esiguità delle pensioni degli avvocati, l’eccessiva onerosità e l’incertezza nel recupero dei crediti professionali (oltre ai tempi eccessivi), costituiscono certamente un quadro economico tale da indurre qualsiasi professionista ad un’attenta riflessione sulla possibilità di cambiare lavoro. Ma le sole ragioni economiche non sono di per sé sufficienti a spiegare un quadro così allarmante come quello a cui oggi assistiamo.
La funzione dell’avvocatura è stata sempre quella di “motore” della macchina giuridica e giudiziaria, in quanto, mediante gli atti giudiziari, il legale si preoccupa di calare il caso concreto nella norma astratta, azionando il diritto e ponendo la norma stessa ad una prova di resistenza, di adattabilità, di costituzionalità, in una parola di efficienza ed efficacia nel tutelare il diritto o i diritti ad essa sottesi.
Non v’è dubbio che le norme, essendo astratte, per quanto perfette non possono certamente coprire le molteplici sfaccettature dei casi concreti, e così gli avvocati, mediante l’analisi, le argomentazioni, la critica sviluppata all’interno di una dialettica processuale in cui si fronteggiano tesi contrapposte, consentono ai giudici (prima) ed al legislatore (poi) di valutare e incentivare nuove interpretazioni, stimolando anche le modifiche necessarie a perfezionare la regola e migliorare la tutela dei beni giuridici, costantemente in evoluzione.
Ebbene nell’odierno sistema giudiziario purtroppo tale, fondamentale, ruolo dell’avvocato si è andato sempre più limitando, favorendosi invece un’assimilazione ai sistemi di common law, ove il precedente, la specializzazione e la transazione assumono maggior rilievo rispetto alla legge, ed all’affermazione dei diritti e dei principi fondanti del sistema.
Alla sfiducia del cittadino nella durata dei processi, notoriamente troppo lunghi, si aggiunge oggi anche un’incertezza nelle conseguenze dell’azione giudiziaria.
Una vicenda a cui ho partecipato in prima persona, emblematica dell’odierno sistema giudiziario, è il c.d. “caso Portonaccio”, su cui le cronache romane si sono molto soffermate dal 2017 ad oggi.
Per riassumere, brevemente, la quaestio iuris possiamo dire che sulla Via di Portonaccio, a Roma, esiste una corsia preferenziale per bus e mezzi pubblici. L’accesso riservato a tale corsia era stato sospeso, dal 2009 al 2017, per agevolare la circolazione urbana durante i lavori alla stazione Tiburtina, tanto che, per quasi 10 anni, i cittadini a buon diritto vi transitavano, nonostante i cartelli e la segnaletica stradale non fossero mai stati rimossi.
Improvvisamente, nel 2017, il Comune di Roma Capitale riattivò la preferenziale, cogliendo impreparati i cittadini, tanto che in soli tre mesi fioccarono quattrocentomila verbali in quel tratto stradale.
La questione può apparire di poco conto, ma rappresenta uno spaccato del sistema giuridico odierno laddove si pensi che (tra migliaia di opposizioni) sessanta cittadini, difesi dal medesimo legale sulla base dei medesimi argomenti giuridici, contestati da Roma Capitale con argomentazioni pressoché identiche, siano giunti a risultati diametralmente opposti: c’è chi vinse il ricorso con spese compensate, chi lo vinse con spese a carico della P.A., chi lo perse, e chi lo perse dovendo anche sostenere le spese legali.
In appello il Tribunale dispose anche una CTU, che diede ragione ai ricorrenti, tanto che l’orientamento seguito sino ad una certa data fu quello favorevole ai cittadini. Ma, ahimè, le prime decisioni della Suprema Corte di Cassazione rigettarono le argomentazioni difensive degli opponenti, non in quanto infondate, ma perché le questioni poste dai ricorsi in Cassazione travalicavano nel merito ed esulavano dai canoni del giudizio di legittimità.
Da quel momento in poi, sebbene le decisioni di legittimità fossero state emesse “in rito” e non avessero esaminato le ragioni di doglianza, il Tribunale decise di orientarsi in favore di Roma Capitale in maniera tanto determinata che, dopo alcune condanne (anche alle spese), i cittadini optarono per abbandonare i ricorsi.
Orbene, il “caso Portonaccio” ci pone di fronte ad uno spaccato del sistema giudiziario in cui, talvolta, il principio di libero convincimento del giudice sfoci in una totale incertezza del diritto, tanto che centinaia di cittadini che opposero le multe, pur trovandosi ad affrontare il medesimo problema, si sono ritrovati ad ottenere risultati diametralmente opposti, e finanche la Suprema Corte di Cassazione, anziché cogliere l’occasione di enunciare nuovi e più chiari principi di diritto sui temi da essi invocati (violazione delle norme del codice della strada, errore scusabile e cumulo delle condotte), ha preferito utilizzare pronunzie di rito, così soffocando l’anzidetta funzione dell’avvocato.
In conclusione va ribadito che, se da un lato la veste dell’avvocato “mediatore”, assume un ruolo fondamentale nella riduzione della mole di contenzioso e nella rapida soluzione delle liti, quando tale veste prende il sopravvento sull’esercizio in giudizio dei propri diritti si rischia di frenare, o finanche fermare quell’essenziale funzione dell’avvocatura quale motore della Giustizia, sempre più compressa e frustrata dalle pronunce strettamente procedurali, dall’aumento dei costi del processo e dal timore che il legittimo esercizio dei diritti comporti conseguenze ben peggiori di una pessima transazione.
La crisi dell’avvocatura, a parere di chi scrive, è da ravvisarsi proprio nella compressione di quest’aspetto nel ruolo degli avvocati, i quali anziché valutare la scelta tra la via transattiva e quella giudiziale solo a seconda del caso concreto e delle proposte formulate, si trovano oggi a dover consigliare al cittadino sempre più la via della mediazione solo per non farlo incorrere in spese esagerate, balzelli e ostacoli procedurali.
Tale assimilazione al sistema anglosassone, ove gli accordi precontrattuali e i tavoli di conciliazione sono la regola ed il giudizio l’eccezione, rischia di squilibrare i cardini del nostro ordinamento, basati su principi di romanistica memoria, e sull’affermazione dei diritti.
E’ questa la ragione per cui l’odierna crisi di iscritti agli albi professionali rischia di assurgere a crisi dell’intero sistema giudiziario in quanto l’estremizzazione delle anzidette conseguenze porterà ad un ordinamento in cui le norme non verranno più sviluppate attraverso la critica costruttiva e l’interpretazione, formando diritto vivente, ma si preferirà soffocare (almeno in parte) le proprie ragioni, accettando un accordo insoddisfacente non perché “in medio stat virtus” ma solo a causa dei numerosi ostacoli e dell’ INcertezza del diritto.
Avv. Alessandro Gangemi, Sezione UAS di Messina