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Diritto del lavoro, legittimità della clausola di durata e canone della effettiva tutela

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5542 del 22.02.2023, ha deciso su questioni oggetto di contrasto in tema di diritto del lavoro.

Con la suddetta sentenza, gli Ermellini hanno cassato la decisione emessa dalla Corte di Appello di Roma, ritenendo fondato il primo motivo del ricorso principale ed infondati il secondo motivo ed il ricorso incidentale.

In relazione ai fatti di causa, si premette che la Corte d’Appello di Roma aveva respinto l’appello di un lavoratore avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede di rigetto del ricorso proposto nei confronti della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma, volto ad ottenere: a) l’accertamento dell’inefficacia dei termini apposti ai contratti di lavoro subordinato intercorsi fra le parti nell’arco temporale 9 maggio 2006/25 marzo 2011; b) la dichiarazione della sussistenza di un unico rapporto a tempo indeterminato instauratosi con decorrenza dal 9 maggio 2006 o dalla diversa data ritenuta di giustizia; c) la condanna della resistente alla regolarizzazione del rapporto, al pagamento delle differenze retributive, da quantificare previa ricostruzione della carriera, d) al risarcimento del danno nella misura consentita dall’art. 32 della legge n. 183/2010.

Il ricorrente denunciava, con il primo motivo formulato ai sensi del n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 1, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 368/2001 e censurava il capo della sentenza impugnata che escludeva l’eccepita nullità delle clausole di durata.

Tale motivo è stato ritenuto fondato.

Invero, secondo la Corte di cassazione, in caso di successione di legge nel tempo, la legittimità della clausola di durata apposta al contratto a tempo determinato e le relative conseguenze devono essere valutate facendo applicazione della disciplina vigente al momento dell’istaurazione del rapporto.

Nel caso di specie, l’articolo 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012, impone di specificare nel contratto le ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive che giustificano l’assunzione a tempo determinato e detto obbligo di specificazione non può essere soddisfatto per le fondazioni lirico sinfoniche attraverso la sola indicazione dello spettacolo o dell’opera, non sufficiente, rispetto ad un’attività che si caratterizza per essere finalizzata alla produzione in ogni stagione di una serie di rappresentazioni, a rendere evidenti le ragioni oggettive del ricorso al rapporto a tempo determinato

Il ricorso incidentale, presentato dalla resistente, Fondazione Teatro dell’Opera di Roma, è stato, invece, ritenuto manifestamente infondato (violazione degli articoli 346, 434, 414 e 112 cod. proc. civ, formulata  ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 4 cod. proc. civ.).

Secondo la resistente, la Corte distrettuale avrebbe dovuto dichiarare inammissibile l’appello perché, a fronte della pronuncia di rigetto del Tribunale, fondata solo sulla non convertibilità del rapporto, il ricorrente non aveva riproposto ed articolato le domande contenute nel ricorso di primo grado assorbite dal Tribunale, aventi ad oggetto l’accertamento della nullità del termine.

Ai sensi dell’articolo 112 c.p.c, il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare d’ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti.

Tuttavia, secondo gli Ermellini, non integra violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. la mancata pronuncia sull’eccezione di inammissibilità dell’appello, perché il vizio denunciato è configurabile solo allorquando il giudice ometta di esaminare domande o eccezioni di merito.

Infatti, l’omesso esame di una questione di carattere processuale non determina la nullità della sentenza ed assume rilievo solo se l’implicito rigetto dell’eccezione di rito integri un error in procedendo, ossia la violazione delle norme processuali delle quali, nel formulare l’eccezione, la parte aveva lamentato la violazione. È ius receptum l’orientamento secondo cui, qualora il giudice di primo grado non si sia espressamente pronunciato su una questione, avendola ritenuta assorbita, l’appellante può limitarsi a censurare specificamente il capo della decisione riguardante la questione assorbente ed è tenuto solo a riproporre ex art. 346 cod. proc. civ. la domanda sulla quale non vi è stata alcuna statuizione.

Nel caso di specie, l’errore denunciato non è configurabile, atteso che il Tribunale aveva ritenuto assorbente, per escludere la fondatezza del ricorso, l’inammissibilità della domanda di conversione e, di conseguenza, non aveva pronunciato sull’asserita nullità delle clausole di durata apposte ai contratti a tempo determinato intercorsi fra le parti.

Infine, con la seconda censura, ricondotta al vizio tipizzato dal n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ., il ricorrente principale denunciava la violazione dell’art. 3, comma 5, del d.l. n. 64/2010 e, richiamati il principio di diritto enunciato da Cass. 19 maggio 2014 n. 10924 e la sentenza della Corte Costituzionale 1° dicembre 2015 n. 260, sosteneva che la trasformazione in rapporto a tempo indeterminato del contratto a termine con clausola di durata affetta da nullità non fosse impedita dalle leggi che negli anni avevano imposto divieti di assunzione, trattandosi di norme esterne alla fattispecie dedotta in giudizio, riguardanti il funzionamento e l’autorganizzazione del datore di lavoro, come tali inidonee ad incidere sul diritto soggetti.

La Corte ha ritenuto infondato il suddetto motivo di ricorso.

Infatti, nei casi di rapporto a tempo determinato con clausola affetta da nullità l’instaurazione del rapporto a tempo indeterminato è impedita dalle norme imperative settoriali, vigenti al momento della stipulazione del contratto, che fanno divieto assoluto di assunzione a tempo indeterminato o subordinato, subordinando l’assunzione stessa a specifiche condizioni oggettive e soggettive, fra le quali rientra il previo esperimento di procedure pubbliche concorsuali o selettive.

Pertanto, in caso di reiterazione di contratti a tempo determinato, affetti da nullità perché stipulati in assenza di ragioni temporanee, ove la conversione sia impedita dalle norme settoriali, vigenti ratione temporis, le disposizioni di diritto interno, che assicurano il risarcimento in ogni ipotesi di responsabilità, vanno interpretate in conformità al canone dell’effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia e, pertanto, al lavoratore deve essere riconosciuto il risarcimento del danno con esonero dall’onere probatorio nei limiti previsti dall’art. 32 della legge 4 novembre 2010 n. 183 (successivamente trasfuso nell’art. 28 del d.lgs. 15 giugno 2015 n. 81), ferma restando la possibilità di ottenere il ristoro di pregiudizi ulteriori, diversi dalla mancata conversione, ove allegati e provati.

Avv. Mario Nasello, socio fondatore U.A.S.

 

 

 

 

 

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