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LA GIUSTIZIA AI TEMPI DEL P.N.R.R.

Si fa un gran parlare della innovazione della Giustizia Italiana ad opera delle cosiddette “Riforme Cartabia”, afferenti e al diritto ed alla procedura civile, e al diritto ed alla procedura penale, a guisa che tutti gli operatori del diritto sono stati chiamati ad uno sforzo ermeneutico ed applicativo dai risvolti affatto certi, fintantoché il sistema giustizia non riuscirà ad elaborare fino in fondo i significativi cambiamenti introdotti.

L’ordine impartito dal legislatore attraverso i multiformi interventi compiuti, è ispirato da un unico vero e mai nascosto obiettivo: raggiungere quegli standard in termini di efficienza statistica occorrenti al rispetto degli accordi stipulati in ambito europeo ai fini dell’esecuzione del cosiddetto PNRR.

E, già al riguardo, desta parecchia perplessità la metodologia utilizzata, allorché si ancorino le valutazioni sul funzionamento della giustizia a meri numeri che, a parere di chi scrive, non potranno mai essere indici rilevatori, nella sostanza, del buon andamento dell’amministrazione della giustizia.

Un giudizio concluso, per intenderci, entro tre anni in primo grado, avrà certamente rispettato quegli standard richiesti, e, pertanto, potrà essere annoverato in termini di efficienza statistica, ma, ciò nondimeno, il dato numerico non potrà mai essere sintomatico dell’efficacia sostanziale e del buon andamento dell’azione giudiziaria.

Ma tant’è!

Ciò verso cui, però, preme volgere lo sguardo in questa sede, è l’ambito di propulsione delle aspirazioni cui la riforma della giustizia tende, la cui portata è probabilmente l’aspetto più interessante che, di fatto, rende epocale il cambiamento in atto.

Non si tratta, invero, di mere riforme procedurali o sostanziali, così a seguire dei continui interventi legislativi in materia: ciò che appare è la richiesta lanciata dal legislatore di una rivoluzione prima ancora sociale e culturale, che giuridica.

Nel settore civile, al riguardo, si sta assistendo ai tentativi di conferire centralità alle cosiddette Alternative Dispute Resolution (ADR), ciò al fine di sgravare gli organi giudiziari e, così, risolvere l’annoso problema degli arretrati che incide fortemente sulle performances statistiche.

Sicché, l’intervento riformatore ha interessato soprattutto la procedura di mediazione civile e commerciale, con interventi mirati a “costringere” le parti a sedersi personalmente innanzi al mediatore al fine di risolvere le problematiche in essere ed evitare il ricorso al presidio di giustizia.

Ciò che si chiede, in altri termini, è una svolta storica che, quantomeno nell’ambito della classe sociale media e medio-bassa, appare scontrarsi con una sorta di perdurante immaturità, dacché, ad un buon accordo, spesso ancora si preferisce coltivare il mito del giudice davanti al quale presentarsi per ottenere “chissà quale” giustizia.

Ed uno dei problemi al riguardo – fosse solo questo! – è che ormai, salvo rare eccezioni, il decidente non vedrà mai, né le parti, né i loro procuratori, né i testimoni, ben potendo disporre, come ormai regolarmente avviene, delle note a trattazione scritta ex art. 127 ter c.p.c., e dei Giudici Onorari di Pace, cui delegare gli incombenti in presenza, tal è l’acquisizione della prova orale.

È certamente un quadro desolante per chi continui a ritenere che l’oralità sia un valore fondamentale, sia nella fase della introduzione del giudizio che della discussione finale, allorquando le parti potrebbero alleggerire l’attività del giudicante, illustrando le proprie posizioni, e in diritto, e in facto, favorendo una più immediata comprensione ed interlocuzione, propedeutica alla soluzione delle controversie.

Così come, ma questo è un altra tema, dovrebbero ritenersi maturi i tempi per l’introduzione anche nel giudizio civile dell’istituto della cross examination ai fini dell’acquisizione della prova testimoniale, ormai desueta – se non nociva – la metodologia nondimeno vigente di acquisizione della testimonianza mediante articolati di prova suggestivi.

Il legislatore, tuttavia, ha scelto: implementare a tutti i costi le ADR, che altro non vuol significare che portare fuori dalle aule di giustizia le persone ed i loro problemi!!!

Così, anche nel sistema penalprocessuale risultante dagli interventi innovatori, è lapalissiano il tentativo di rendere il dibattimento l’extrema ratio, rispetto alle soluzioni alternative messe a disposizione degli imputati (dai riti alternativi, alla messa alla prova, alle condotte riparatorie).

E, però, tutto il sistema sembra assumere una chiara connotazione di circolarità: avuto riguardo al sostrato culturale italiano, impregnato ancora oggi di quella quotidiana idealizzazione del tribunale quale strumento di perseguimento dei propri fini (anche dilatori), secondo i punti di vista di volta in volta nutriti, il quid pluris occorrente alla definitiva consacrazione delle ADR in ambito civile, appare essere proprio quella efficienza ed efficacia sostanziale che la riforma in argomento mira a raggiungere, dacché è solo attraverso una prospettiva decisionale immediata, severa ed intransigente, che può scardinarsi quella sovrastruttura ideologica ancora sussistente nell’immaginario collettivo, vero ostacolo alla definitiva virata verso “gli accordi fuori dal tribunale”.

Così, anche nel sistema processualpenale, la deflazione dei carichi passa, paradossalmente, da un più accurato e approfondito, per ciò stesso aggravato, espletamento delle indagini preliminari, affinché, quando si arrivi davanti al giudice, qualora ciò avvenga, l’imputato possa avere una più stringente prospettiva rispetto alle proprie sorti giudiziali.

È, cioè, l’efficienza che crea efficienza.

Di questo l’Italia ha bisogno affinché maturi quel processo di avvicinamento alla giustizia anglosassone, che possa determinare l’abbattimento della cosiddetta “litigiosità”.

Solo il tempo chiarirà se quel futuro non è più così tanto lontano.

Avv. Santi Certo, segretario della Sezione UAS di Messina.

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