Con un’interessante ordinanza la Corte di Cassazione ha affrontato la questione della configurabilità dell’esistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro, in applicazione dei criteri rivelatori di una simulazione, o di una preordinazione in frode alla legge, del frazionamento di un’unica attività fra vari soggetti, con riguardo alla relativa tutela reintegratoria del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo rivelatosi insussistente.
La peculiarità dell’ordinanza n. 17176 del 26 maggio 2022 è da ricercare nel fatto che è stata emessa alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 59 del 24 febbraio 2021 con cui è stata dichiarata l’incostituzionalità del comma 7, secondo periodo, dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Per completezza deve essere precisato che con la sentenza n. 125 del 19 maggio 2022 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della parola “manifesta” inserita nell’ambito dell’art. 18, comma 7, dello Statuto dei lavoratori. Infatti il requisito del carattere “manifesto” dell’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per GMO, richiesto per disporre la reintegra del lavoratore, è stato considerato indeterminato, prestandosi ad incertezze applicative e potendo condurre a soluzioni difformi.
È opportuno specificare che l’unicità del centro di imputazione datoriale si realizza nell’ipotesi in cui più imprese, distinte da un punto di vista formale, in concreto esercitino l’attività con una immedesimazione ed una promiscuità tali da far ravvisare una sostanziale unicità strutturale.
Deve essere certamente precisato che, come è noto, la configurazione del gruppo di imprese non è un fenomeno rilevante in quanto tale, ma soltanto in presenza di specifici requisiti individuati dalla giurisprudenza e su cui ci si soffermerà brevemente più avanti.
Infatti è possibile che attraverso lo schermo di distinte società si realizzi in realtà un’operazione di piercing the corporate veil e che dunque venga accertato un frazionamento fraudolento di un’unica attività suddivisa fra due o più soggetti.
La nozione di centro unitario di imputazione del rapporto di lavoro va tenuta ben distinta dalla cosiddetta codatorialità, posto che quest’ultima si realizza quando i soggetti giuridici sono distinti anche da un punto di vista sostanziale e non soltanto formale, ma beneficiano delle prestazioni di lavoro fornite da un medesimo lavoratore.
Pertanto mentre il fenomeno del centro unico di imputazione del rapporto di lavoro è ontologicamente patologico, la codatorialità non è inevitabilmente un’anomalia, stante che l’ordinamento consente la possibilità di instaurare da parte di un lavoratore una pluralità di rapporti di lavoro, con due o più datori di lavoro, ovviamente ciò non deve essere concepita in funzione simulatoria.
La fattispecie concreta da cui trae origine la decisione riguarda un lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo a causa della cessazione dell’azienda in cui lo stesso era formalmente inserito.
Il lavoratore ha impugnato il predetto provvedimento espulsivo per GMO ed ai fini dell’individuazione del regime di tutela applicabile ha sostenuto la sussistenza di un unico centro di imputazione di interessi fra le società datrici con conseguente sommatoria di tutti i lavoratori occupati da queste ultime e per l’effetto l’applicazione della tutela reale ex art. 18, comma 4, Statuto dei lavoratori per insussistenza della ragione addotta a base della riduzione del personale.
In sede di reclamo ex art 1, comma 58, della legge n. 92 del 2012, la Corte territoriale ha ritenuto l’insussistenza del giustificato motivo di licenziamento intimato al lavoratore, rilevando, ai fini dell’individuazione del regime di tutela applicabile, l’esistenza di un unico centro di imputazione di interessi con condanna alla reintegrazione del lavoratore nel proprio posto di lavoro.
Avverso tale decisione, ha proposto ricorso per Cassazione la società responsabile in solido, deducendo, in riferimento a quanto di interesse in questa sede, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2359 cod. civ. e di ogni altra disposizione in materia di rilevanza della nozione formale di controllo e collegamento societario, nonché l’omessa valutazione della eccessiva onerosità della reintegra del lavoratore, a fronte della accertata manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per GMO.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso partendo dal proprio costante orientamento secondo cui «Il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società di un medesimo gruppo non comporta il venir meno dell’autonomia delle singole società dotate di personalità giuridica distinta, alle quali continuano a fare capo i rapporti di lavoro del personale in servizio presso le distinte e rispettive imprese; tale collegamento, pertanto, non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, intercorso tra un lavoratore e una di tali società, si estendano ad altre dello stesso gruppo, salva, peraltro, la possibilità di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro – anche ai fini della sussistenza o meno del requisito numerico necessario per l’applicabilità della cosiddetta tutela reale del lavoratore licenziato – ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività fra vari soggetti e ciò venga accertato in modo adeguato, attraverso l’esame delle singole imprese, da parte del giudice del merito».
La Suprema Corte ha ritenuto che la Corte di merito abbia utilizzato in maniera corretta i criteri per l’individuazione dell’unicità della struttura aziendale, in quanto è stata accertata:
- a) l’unicità della struttura organizzativa e produttiva;
- b) l’integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo ed il correlativo interesse comune;
- c) il coordinamento tecnico ed amministrativo/finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune;
- d) l’utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori.
In ordine alla censura afferente al lamentato mancato accertamento della eccessiva onerosità della reintegrazione nel posto di lavoro, nonostante l’accertata manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per GMO, la Corte di Cassazione ha richiamato la recente sentenza della Corte Costituzionale con cui è stato deciso che «Il richiamo alla eccessiva onerosità, che la giurisprudenza di legittimità ha indicato nell’intento di conferire alla previsione un contenuto precettivo meno evanescente, non pone rimedio all’indeterminatezza della fattispecie» e che «L’eccessiva onerosità, declinata come incompatibilità con la struttura organizzativa nel frattempo assunta dall’impresa, presuppone valutazioni comparative non lineari nella dialettica tra il diritto del lavoratore a non essere arbitrariamente estromesso dal posto di lavoro e la libertà di iniziativa economica privata. Né serve a individuare parametri sicuri per la valutazione del giudice nel riconoscimento di due rimedi – la reintegrazione o l’indennità – caratterizzati da uno statuto eterogeneo.
In un sistema equilibrato di tutele, la discrezionalità del giudice riveste un ruolo cruciale, come questa Corte ha riconosciuto di recente nel censurare l’automatismo che governava la determinazione dell’indennità risarcitoria per i licenziamenti viziati dal punto di vista sostanziale (sentenza n. 194 del 2018) o formale (sentenza n. 150 del 2020), dapprima commisurata alla sola anzianità di servizio. Al giudice è stato restituito un essenziale potere di valutazione delle particolarità del caso concreto, in base a puntuali e molteplici criteri desumibili dall’ordinamento, frutto di una evoluzione normativa risalente e di una prassi collaudata.
Il mutamento della struttura organizzativa dell’impresa che preclude l’applicazione della tutela reintegratoria è riconducibile allo stesso imprenditore che ha intimato il licenziamento illegittimo e può dunque prestarsi a condotte elusive. Tale mutamento, inoltre, può intervenire a distanza di molto tempo dal recesso ed è pur sempre un elemento accidentale, che non presenta alcun nesso con la gravità della singola vicenda di licenziamento.
Pertanto è stata dichiarata «l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “può altresì applicare” – invece che “applica altresì” – la disciplina di cui al quarto comma del medesimo art. 18» (Corte Cost. n. 59 del 24 febbraio 2021).
In conclusione, alla luce di quanto precede, è utile soffermarsi sugli eventuali effetti delle decisioni della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, tendenti ad una evidente riemersione della versione originaria dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, sulla disciplina dei licenziamenti illegittimi irrogati ai lavoratori assunti successivamente al 7 marzo 2015, ovvero dall’entrata in vigore delle disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti (d.lgs n. 23/2015).
Per potere individuare possibili effetti della sentenza della Corte Costituzionale sul d.lgs n. 23/2015 occorre tenere conto delle motivazioni che hanno condotto alla decisione in argomento.
Ebbene, la configurazione della facoltà della tutela reale rivolto soltanto nei casi di licenziamento economico – a differenza di quelli disciplinari inesistenti per i quali la tutela reale non è facoltativa ma obbligatoria – è stata ritenuta dalla Consulta irragionevole in quanto «l’esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente, sia quando si appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore».
La Corte Costituzionale indica espressamente che l’irragionevolezza della scelta operata con la legge n. 92/2012 risiede essenzialmente nel fatto che è la stessa disposizione normativa contenuta nell’art. 18 commi 4 e 7 a collegare l’applicazione della tutela reale al comune presupposto della insussistenza del fatto.
Proprio per tale ragione è stata dichiarata incostituzionale la scelta legislativa per cui in caso di licenziamento disciplinare illegittimo l’applicazione della tutela reale è prevista come obbligatoria, mentre in caso di licenziamento per GMO illegittimo come facoltativa.
Con l’entrata in vigore delle disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti non è ravvisabile una generale tutela reale connessa all’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento.
Infatti il legislatore del 2015 ha previsto che la tutela reale è applicabile “esclusivamente” ai licenziamenti disciplinari in cui sia dimostrata l’insussistenza del fatto materiale (art. 3, comma 2), pertanto il diritto alla reintegrazione si inserisce nel sistema di tutele come un’eccezione alla regola generale della tutela obbligatoria (art. 3, comma 1).
L’effetto diretto è che un possibile ulteriore intervento di verifica di costituzionalità sull’art. 3 d.lgs n. 23/2015 richiederebbe ulteriori motivazioni rispetto a quelle addotte con la sentenza n. 59/2021.
In definitiva con l’ordinanza in commento – per effetto della lettura operata dalla Corte Costituzionale i cui principi sono applicabili sino all’esaurimento di tutti i rapporti di lavoro sorti prima dell’entrata in vigore del d.lgs n. 23/2015 – è stato dichiarato il diritto del lavoratore ad essere reintegrato nelle ipotesi di insussistenza del fatto posto alla base per licenziamento per GMO, stante l’immediata operatività automatica e non opzionale del sistema di tutela previsto dall’art. 18, comma 4, legge n. 300/1970, ciò anche in considerazione che le sentenze della Corte costituzionale producono l’annullamento delle norme di legge dichiarate incostituzionali, con effetti erga omnes, non solo ex nunc, ma anche ex tunc, con il solo limite dei rapporti esauriti.
Avv. Antonio Marchetta, segretario della Sezione Unione Avvocatura Siciliana di Agrigento.