La Corte di Appello di Palermo, Sezione lavoro, con la sentenza n.122 del 14 febbraio 2022, ha affermato alcuni interessanti principi che possono inserirsi nella più ampia tematica dei licenziamenti intimati dall’amministratore giudiziario nei confronti di quei dipendenti, i quali, per svariate ragioni, sono ritenuti “vicini” al proposto.
Nella fattispecie, l’amministratore giudiziario, previa autorizzazione da parte del Giudice Delegato, aveva risolto il rapporto di lavoro con un soggetto – inizialmente destinatario del provvedimento di sequestro ex art. 321 c.p.p., poi revocato nei suoi confronti -, che risultava coinvolto, per alcuni reati, nel processo penale nell’ambito del quale era stato disposto il sequestro e che, in precedenza, aveva espletato rilevanti funzioni direttive.
Le questioni affrontate dalla Corte di Appello sono molteplici e, in estrema sintesi e senza il doveroso approfondimento che detti istituti meriterebbero, possono riassumersi nei termini che di seguito si espongono.
Un primo profilo, di ordine processuale, attiene al rigetto della istanza di sospensione necessaria formulata ai sensi dell’art. 295 c.p.c. dal lavoratore appellante.
La Corte, correttamente, non ha sospeso il giudizio atteso che “sin dalla riforma del codice di procedura penale nel 1988, il nostro ordinamento non è più ispirato al principio dell’unità della giurisdizione, ma a quello dell’autonomia di ciascun processo e della piena cognizione da parte di ciascun giudice, dell’uno e dell’altro ramo, delle questioni giuridiche o di accertamento dei fatti rilevanti ai fini della propria decisione”.
Risolta la questione preliminare, invero pacifica, i giudici di appello hanno affermato il principio in base a quale le norme del D. Lgs. n. 159/2011 in materia di amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati si applicano anche ai sequestri penali ex art. 321 c.p.p. sia in virtù di quanto disposto dal comma 4 bis dell’art. 12 sexies del d.l. 9.6.1992 n. 306 e sia, con riferimento al caso concreto, in considerazione dello specifico reato contestato, rientrante tra quelli di competenza della Direzione Distrettuale Antimafia di cui all’art. 51, comma 3 bis, c.p.p.
Da tale premessa la Corte di Appello ha fatto conseguire “la possibilità per l’amministratore giudiziario, anche in quest’ultimo caso, di disporre dei rapporti giuridici pendenti all’atto dell’applicazione della misura, secondo le modalità fissate dall’ art. 56” del D. Lgs. n. 159/2011.
Quest’ultima disposizione normativa, che prevede la sospensione ipso iure dei contratti ai quali non sia stata ancora data integrale esecuzione, è stata “ritenuta applicabile, con orientamento ormai consolidato, anche ai rapporti di lavoro pendenti alla data del sequestro” (cfr. Cass. n. 26478/2018; Cass., n. 14039/2017).
L’applicazione del citato art. 56 anche ai rapporti di lavoro – soggiungono i giudici di appello – “ha l’effetto di esonerare la parte datoriale dall’adozione delle garanzie procedimentali di cui all’art. 7 L. n. 300/1970 e di consentire di ritenere soddisfatto il requisito motivazionale del provvedimento espulsivo mediante il mero richiamo alle ragioni indicate dall’autorità giudiziaria penale”.
In altri termini, la Corte di Appello, così disattendendo quell’orientamento, invero minoritario, che riteneva necessaria l’osservanza delle regole proprie del procedimento disciplinare, ha ribadito che la risoluzione comunicata dall’amministratore giudiziario avvalendosi della facoltà prevista dall’art. 56 non costituisce un licenziamento disciplinare.
Per quanto concerne, poi, l’obbligo di motivazione del licenziamento la Corte ha ritenuto sufficiente che il provvedimento espulsivo contenga anche soltanto una motivazione per relationem, rinviando, dunque, alle ragioni specificate nel provvedimento di autorizzazione del Giudice Delegato (che talvolta si limita a operare un richiamo tout court alle motivazioni addotte dall’amministratore giudiziario nell’istanza di autorizzazione).
Le conclusioni sin qui esposte – pur con le precisazioni che saranno di seguito illustrate – appaiono coerenti con i principi più volte enunciati dalla Corte di Cassazione; nella pronunzia in commento, però, è dato scorgere un quid novi nella ritenuta necessità che al requisito oggettivo (ossia la sottoposizione a una misura di prevenzione) si accompagni anche un requisito soggettivo, rinvenibile – a detta dei giudici di appello – nella presenza di una delle situazioni soggettive descritte dall’art. 35 del D. Lgs. n. 159/2011.
E infatti, sul presupposto che, ad avviso dei giudici di appello, “ai fini dell’applicazione di tale speciale regime non è sufficiente, tuttavia, la ricorrenza del requisito, oggettivo, della sottoposizione dell’impresa ad una misura di prevenzione (o cautelare) di natura reale” e che “occorre altresì che il lavoratore si trovi in una delle situazioni soggettive delineate dall’art. 35 del medesimo decreto legislativo”, è stato affermato che “il recesso dell’amministratore giudiziario dal rapporto di lavoro con i dipendenti dell’azienda, nel regime speciale sopra delineato, trova, dunque, la sua giustificazione sostanziale nell’impossibilità, per chi si trovi in una delle situazioni delineate dall’art. 35, di continuare a collaborare, in virtù del rapporto di lavoro subordinato in essere, nell’ambito dell’impresa sottoposta ad amministrazione giudiziaria”.
Coerentemente con siffatta premessa la Corte ha concluso che “la ragione giustificatrice di tale recesso va rinvenuta non già nella commissione di una condotta disciplinarmente rilevante quanto piuttosto nell’impossibilità sopravvenuta della prestazione dipesa dall’impedimento giuridico, per il lavoratore che si trovi in una delle suddette condizioni, di continuare a prestare la propria collaborazione all’interno dell’impresa”.
Alla luce dei principi sopra richiamati la Corte di Appello ha ritenuto, quindi, di dovere verificare l’eventuale esistenza di una delle situazioni indicate nell’art. 35 sicché, non avendola rinvenuta, per effetto della revoca del sequestro in precedenza disposto in danno del lavoratore, ha riformato la pronunzia impugnata, dichiarando l’illegittimità del licenziamento e condannando il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro; con le ulteriori conseguenziali statuizioni di ordine risarcitorio/indennitario.
Riepilogando, la sentenza in commento, da una parte, ribadisce alcuni principi enunciati dalla Corte di Cassazione in tema di licenziamento adottato dall’amministratore giudiziario e, dall’altra, valorizzando la circostanza oggettiva dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione per chi versi in una delle situazioni descritte nell’art. 35 del D. Lgs. n. 159/2011, parrebbe dare la stura a una operazione ermeneutica – pure invocata da autorevole dottrina – volta a inquadrare il licenziamento de quo nella categoria del licenziamento per giustificato motivo oggettivo piuttosto che in quello per giusta causa.
In definitiva, ribadito che la complessità dei temi correlati ai licenziamenti intimati dall’amministratore giudiziario (e, in particolare, alla soluzione allo stato prospettata in ordine a un eventuale conflitto/concorso tra norme speciali, dettate dal D. Lgs. n. 159/2011, e la normativa generale in materia di licenziamenti) richiederebbe una ben più approfondita disamina, che non può trovare ingresso nel presente breve commento, possiamo concludere che nella materia in esame permane un quadro dai contorni oltremodo incerti, nel quale, ad avviso di chi scrive, non è da escludere che i principi enunciati dalla Corte di Cassazione, a cui, sino a oggi, mostra di aderire gran parte della giurisprudenza di merito, possano essere oggetto di una rivisitazione anche da parte del giudice di legittimità.
Avv. Gerlando Calandrino socio fondatore Unione Avvocatura Siciliana