La crisi emergenziale dovuta alla diffusione del virus “SARS–CoV–2” sembra oggi in parte superata, quantomeno relativamente ai suoi aspetti sanitari e sociali più drammatici. Il progressivo
miglioramento delle condizioni sanitarie, unite, da un lato, alla grave pressione economica generata dall’emergenza medesima e, dall’altro, ad un comune sentire di necessario ritorno ad una parvenza di normalità, costituiscono l’attuale quadro generale nel quale si incardinano le più recenti politiche legislative e governative, strategicamente orientate verso programmi di resilienza e di graduale riedificazione dello status quo. Nondimeno, di fianco al presente assetto, corrono, su binari paralleli, gli effetti ancora in essere degli innumerevoli atti e provvedimenti di gestione e di prevenzione della crisi adottati medio tempore dal Legislatore e dalle Autorità amministrative (centrali e periferiche). L’ingente e costante produzione legislativa e regolamentare compendiatasi nel periodo emergenziale riflette, per così dire, l’immagine di una ‘pandemia normativa’ speculare a quella epidemiologica, la quale, come osservato dalla dottrina, «ci consegna il ritratto di un Paese contagiato anche sotto il profilo della certezza del diritto e dei diritti» (F. TORRE, Il (carattere bidirezionale del) principio di sussidiarietà alla prova dell’emergenza da coronavirus, in Diritti Regionali, La gestione dell’emergenza sanitaria tra Stato, Regioni ed enti locali, n. 1/2020, 618).
In siffatto delineato contesto si colloca, tra le altre, la previsione contenuta nell’art. 4, D.L. n. 44/2021, conv., con modificazioni, in L. n. 76/2021, il quale, com’è noto, proprio «al fine di tutelare
la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza», ha imposto agli esercenti le professioni sanitarie che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio–assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali, l’obbligo della vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da SARS–CoV–2 sino al 31 dicembre 2021, termine modificato più volte tramite disposizioni novellatrici dello stesso art. 4: dapprima, prorogato di sei mesi a decorrere dal 15
dicembre 2021 (ad opera del D.L. n. 172/2021, art. 1, co. 1, lett. b), conv., con modificazioni, in L. n. 3/2022) e, quindi, sino al 31 dicembre 2022 (in forza del D.L. n. 24/2022, art. 8, co. 1, lett. a), conv., con modificazioni, in L. n. 52/2022), nonché, infine, retrodato all’1/11/2022 (per effetto del D.L., n. 162/2022, art. 7, co. 1, lett. a), non ancora convertito in legge).
Nella prospettiva della citata disposizione l’obbligo della vaccinazione viene suggellato quale «requisito essenziale per l’esercizio della professione» (art. 4, co. 1, cit.) e l’esenzione dallo stesso, o
il suo differimento, trova giustificazione soltanto «in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate» (art. 4, co. 2) ed attestate dal medico di
medicina generale, ovvero dal medico vaccinatore. Nel dettaglio, la norma in esame fissa una precisa scansione procedimentale volta a regolare le modalità operative dell’obbligo vaccinale e a verificarne l’adempimento; prevede, in particolare, che, nel caso in cui l’Amministrazione accerti il mancato assolvimento dell’obbligo medesimo, e sempre che non risultino comprovate ragioni di esonero scientificamente valide, il procedimento culmina con l’adozione di un atto «da parte dell’Ordine professionale territorialmente competente», avente per espressa previsione di legge «natura dichiarativa e non disciplinare», il quale «determina l’immediata sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie» (art. 4, co. 4). Le sospensioni adottate sul territorio nazionale in forza della succitata disciplina sono state numerose, così come numerose sono state le impugnazioni ad esse interposte e le questioni processuali che ne sono scaturite, ad oggi ancora irrisolte: prima fra tutte quella relativa all’individuazione del giudice munito di giurisdizione.
Sul punto, infatti, si registrano due orientamenti diametralmente opposti: l’uno, da ultimo sostenuto dalle SS.UU. della Corte di Cassazione, le quali, con sentenza n. 28429 del 29/9/2022,
hanno risolto un conflitto negativo di giurisdizione (sollevato dal Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche con ordinanza dell’11/4/2022) con la declaratoria di giurisdizione in favore
del giudice ordinario; l’altro, più volte ribadito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, il quale anche con la recentissima sentenza n. 10648 del 5/12/2022, e ancorché dichiarandosi consapevole del «contrario, e autorevole avviso di Cass., Sez. Un., 29 settembre 2022», ha ritenuto di dover riaffermare «la giurisdizione del giudice amministrativo».
Alla base del contrasto tra i due citati orientamenti si pone una profonda diversità di vedute in relazione a diversi profili, alcuni dei quali attinenti all’interpretazione della disciplina sopra
richiamata, altri afferenti, invece, a questioni che da tempo dominano la scena del dibattito, tanto accademico, quanto giurisprudenziale. È certamente indubbio che l’indagine da compiersi in punto di riparto di giurisdizione deve essere orientata alla stregua del c.d. ‘petitum sostanziale’, ovverosia deve essere compiuta sulla base dell’esame dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio e, quindi, della c.d. ‘causa petendi’ (cfr., Cass., SS.UU., n. 20350/2018; Cass., SS.UU., n. 13702/2022). Ne consegue, pertanto, che, fatte salve le ipotesi di giurisdizione esclusiva, l’individuazione del giudice munito di giurisdizione resta in ogni caso affidata al tradizionale binomio ‘diritto soggettivo–interesse legittimo’. E ciò a prescindere dalla rilevanza degli interessi in gioco, ovvero dalla circostanza che l’azione amministrativa sia in grado di incidere anche su diritti fondamentali come quello alla salute, i quali ben possono essere conformati dall’esercizio del potere. Tuttavia, a fronte di tale pacifica premessa, in ipotesi di impugnazione delle delibere di sospensione adottate ai sensi del suddetto art. 4, D.L. n. 44/2021, è proprio in ordine all’individuazione del ‘petitum sostanziale’ dedotto in giudizio che si annida la prima frattura tra l’indirizzo patrocinato dalla giurisprudenza di legittimità e l’orientamento seguito dal Consiglio di
Stato. Al riguardo, le sopracitate SS.UU. affermano, infatti, che ciò che connota l’azione giudiziaria intrapresa dal destinatario della sospensione è la rivendicazione del proprio «diritto ad esercitare l’attività (libero–)professionale sanitaria, nonostante l’imposizione ex lege dell’obbligo vaccinale come “requisito essenziale” per l’esercizio di detta professione». Le censure che si muovono a sostegno della pretesa revoca della misura della sospensione per inadempimento dell’obbligo vaccinale sono, pertanto, «rivolte, nella sostanza, direttamente contro le previsioni normative che hanno imposto e regolato detto obbligo», sicché tali doglianze sono veicolate come strumentali «a far prevalere sull’obbligo ex lege il menzionato diritto al lavoro professionale». In altri termini – precisa la Corte – a dare corpo alla ‘causa petendi’ sarebbe esclusivamente «il diritto all’esercizio di una attività professionale regolamentata» e non anche il diritto alla salute o quello a non subire trattamenti sanitari obbligatori, ovvero ancora il diritto all’autodeterminazione, temi di indagine che nella specie rimangono «sullo sfondo». La normativa in forza della quale viene disposta la sospensione, infatti, prevede l’obbligo vaccinale come «requisito essenziale per l’esercizio della professione»; si tratta di una condizione imposta dalla legge a tutela della salute pubblica e della sicurezza delle cure, in attuazione del principio di solidarietà ex art. 2 Cost., con particolare attenzione alle c.d. ‘categorie più fragili’ e che, pertanto, opera «su un piano oggettivo, a prescindere da connotazioni di disvalore della eventuale condotta inadempiente». Infine, aggiungono le SS.UU., «detto “requisito essenziale” attiene all’esercizio della professione e, dunque, al suo svolgimento già consentito dalla previa iscrizione all’albo professionale – svolgimento che, in caso di inadempimento all’obbligo di vaccinazione, rimane solo temporaneamente inibito –, ma non incide sullo status di professionista iscritto all’albo, che persiste come tale».
In direzione diversa, invece, si muove la ricostruzione della fattispecie offerta dal Consiglio di Stato nella succitata sentenza n. 10648/2022. Secondo il Collegio, infatti, i destinatari della misura
di sospensione, a ben vedere, «non lamentano soltanto una violazione del loro diritto al lavoro e alla retribuzione (art. 36 Cost.), ma una violazione diretta, e radicale, anche del loro fondamentale diritto ad autodeterminarsi (artt. 2 e 32 Cost.), diritto che, evidentemente, è leso da tutto il procedimento inteso ad accertare l’inadempimento a tale obbligo, dal principio alla fine, in quanto ogni atto di questo procedimento, indipendentemente dalla maggiore e crescente incisività dei suoi effetti via via che il procedimento avanza, invade la sfera giuridica dei destinatari e l’ambito di autonomia decisionale e, per così dire, dell’habeas corpus che essi reclamano». La divergenza tra le posizioni assunte dalla giurisprudenza si riverbera sulla qualificazione
della situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio dagli interessati. Essa, ad avviso delle SS.UU., non può che essere di «diritto soggettivo»: ciò che viene rivendicato è, appunto, il diritto soggettivo «di continuare ad esercitare la professione … nonostante l’inadempimento dell’obbligo vaccinale», diritto che non è intermediato dal potere amministrativo, ma soffre di limiti e condizioni previste esaustivamente dalla legge.
Le considerazioni che precedono determinano, dunque, l’ingresso sulla scena di una delle più note e dibattute questioni, costantemente vive in dottrina e giurisprudenza, ossia la possibilità di
qualificare in termini di ‘interesse legittimo’ la posizione del privato allorquando l’Amministrazione eserciti un’attività di tipo vincolato, ovvero se, al contrario, in siffatte ipotesi la situazione giuridica che dialoga con l’azione amministrativa debba essere ricostruita unicamente in termini di ‘diritto soggettivo’.
Sul punto, la Corte rammenta la propria consolidata giurisprudenza secondo cui «appartiene alla cognizione del giudice ordinario la controversia in cui venga in rilievo un diritto soggettivo nei
cui confronti la pubblica amministrazione eserciti un’attività vincolata, dovendo verificare soltanto se sussistano i presupposti predeterminati dalla legge per l’adozione di una determinata misura, e non esercitando, pertanto, alcun potere autoritativo correlato all’esercizio di poteri di natura discrezionale» (Cass., SS.UU., nn.: 22254/2017, 11576/2018, 10089/2020, 8188/2022). Al fine di cogliere la differenza tra le due situazioni – unico criterio di riparto per radicare la giurisdizione – occorre, secondo la citata giurisprudenza, «far riferimento al “dato distintivo per il quale in presenza di un potere discrezionale la situazione giuridica di cui è titolare il soggetto privato è di interesse legittimo». L’interesse legittimo, infatti, si differenzia dal diritto soggettivo «per il fatto che l’acquisizione o la conservazione di un determinato bene della vita non è assicurata in modo immediato dalla norma, che tutela appunto in modo diretto l’interesse pubblico, bensì passa attraverso l’esercizio del potere amministrativo» (Cass., SS.UU., n. 23436/2022). Secondo tale interpretazione, la norma è attributiva del potere quando conferisce all’autorità amministrativa la potestà di scelta discrezionale in ordine alla disposizione degli interessi e alla fissazione del precetto giuridico. Se invece il diritto sostanziale è stato fissato dalla legge con la preventiva definizione della gerarchia degli interessi, il rapporto giuridico che viene così instaurato attiene a diritti soggettivi e l’autorità amministrativa può all’occorrenza essere preposta alla vigilanza circa l’osservanza del precetto giuridico o a darvi attuazione. Diversa è la situazione, invece, nel caso in cui il potere sia vincolato in tutti i suoi elementi dalla norma giuridica (Cass., SS.UU. n. 23436/2022, cit.). La disciplina di cui all’art. 4, D.L. n. 44/2021, non attribuisce alla Pubblica Amministrazione alcun potere discrezionale nella conformazione del diritto all’esercizio della professione sanitaria, il
cui svolgimento (e, dunque, il suo pieno dispiegarsi come posizione soggettiva piena e immediatamente tutelabile) viene sospeso temporaneamente in ipotesi di inadempimento dell’obbligo
vaccinale in forza delle previsioni dettagliatamente recate dalla fonte legislativa. È il legislatore, infatti, che, incidendo su aspetti di primissimo livello, di eminente rilievo costituzionale, ha operato
il bilanciamento degli interessi in gioco. Ed è la legge che, mediante la predeterminazione, a monte, di un procedimento a carattere vincolato, circoscrive il raggio dell’azione amministrativa e ne
cristallizza il relativo potere, il quale, orfano di qualsiasi connotato di discrezionalità, si manifesta, a valle, per il mezzo di un atto non strettamente provvedimentale, ma avente, come detto, natura
dichiarativa. Che all’esercizio di un potere vincolato nei suoi elementi dell’an e del quomodo corrisponda necessariamente il diritto soggettivo del privato non è, in realtà, affermazione pienamente condivisa. Da tempo, infatti, specialmente nella giurisprudenza amministrativa si è affacciata l’idea che il ‘potere vincolato’, pur se predeterminato dalla legge, non si trasforma per ciò solo in una categoria civilistica assimilabile al ‘diritto potestativo’. Il ‘potere vincolato’ resta ‘potere autoritativo’ e, dunque, espressione sia di ‘supremazia’ sia di ‘funzione’. E funzione vuol dire «finalizzazione al soddisfacimento di un interesse pubblico» (CGARS, n. 802/2021). Al fine di trattenere a sé la giurisdizione, il Consiglio di Stato sembra muovere, anche nella pronuncia qui scrutinata, da dette considerazioni. Afferma, infatti, di dover ribadire che «la cognizione delle controversie inerenti all’obbligo vaccinale, di cui all’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, spetta al giudice amministrativo perché si tratta, almeno con riferimento all’introduzione della vaccinazione obbligatoria contro il virus Sars–CoV–2 in fase emergenziale (ora superata), di un potere vincolato che viene esercitato a tutela della salute pubblica, di fronte al quale non necessariamente si contrappone un diritto soggettivo, ma può e deve correttamente configurarsi … un interesse legittimo alla corretta esplicazione di detto potere, esercitato dall’amministrazione sanitaria al fine di evitare la diffusione del contagio da virus Sars–CoV–2». A sostegno di tale affermazione, lo stesso Consiglio di Stato rammenta un principio ormai consolidatosi nella propria giurisprudenza e, soprattutto, coerente con il dato normativo di cui all’art. 7 c.p.a., e cioè che la giurisdizione amministrativa sussiste ogniqualvolta sono impugnati atti e provvedimenti «emessi nell’esercizio del potere pubblico, e dunque autoritativi, non rilevando che si tratti di un potere discrezionale o vincolato». Questo perché, come pure osservato dalla Corte Costituzionale, è un postulato privo di qualsiasi fondamento sostenere che un atto vincolato non possa incidere su posizioni di interesse legittimo (cfr. Corte Cost., n. 127/1998). Detto diversamente, quindi, «sussiste la giurisdizione amministrativa a maggior ragione quando la legge abbia attribuito alla pubblica amministrazione un potere volto a tutelare gli interessi pubblici» (Cons. di Stato, Ad. Plen. n. 8/2008). Ed è evidente che la disciplina contenuta nell’art. 4, D.L. n. 44/2021 assegna all’Amministrazione il potere–dovere, sebbene privo di margini di discrezionalità, di «tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza». In siffatto angolo visuale, allora, non può che valere il principio secondo cui «anche a fronte di attività connotate dall’assenza in capo all’amministrazione di margini di discrezionalità valutativa o tecnica, quindi, occorre avere riguardo, in sede di verifica della natura della corrispondente posizione soggettiva del privato, alla finalità perseguita dalla norma primaria, per cui quando l’attività amministrativa, ancorché a carattere vincolato, tuteli in via diretta l’interesse pubblico, la situazione vantata dal privato non può che essere protetta in via mediata, così assumendo consistenza di interesse legittimo» (Cons. di Stato, Ad. Plen. n. 8/2008, cit.). Peraltro – evidenzia in conclusione il Consiglio di Stato – laddove la legge consente l’esonero vaccinale, o il suo differimento, l’Amministrazione dispone (non già di un potere autoritativo discrezionale, ma) di una «discrezionalità tecnica necessaria per riscontrare se sussista o meno l’unica causa codificata di esonero dall’obbligo vaccinale (id est l’accertato pericolo per la salute)». Ma se così è, dunque, «non può dubitarsi che un potere vincolato a determinati requisiti di ordine tecnico– scientifico sussista, giacché ammettere una “discrezionalità tecnica” necessaria per riscontrare la causa di esonero già vuol dire riconoscere un potere – per quanto non discrezionale c.d. puro – in capo all’amministrazione sanitaria, chiamata ad operare in concreto, in base a valutazioni di carattere scientifico non predeterminate né predeterminabili dal legislatore, un bilanciamento tra l’obbligo vaccinale, (al tempo) vigente, e le condizioni di salute e la “persona” del singolo obbligato». Quanto osservato e ricostruito mette in luce non solo la complessità della disciplina, ma sottolinea le innegabili incertezze applicative che essa ha generato. Una normativa dichiaratamente ‘emergenziale’ e, come tale, congegnata per rimanere temporalmente circoscritta in un determinato momento storico e che, invece, è andata ad intersecarsi con pilastri tradizionali dell’Ordinamento.
Avv. Marco Zappia
Responsabile Formazione Unione Avvocatura Siciliana, Sezione di Messina