La ricorrenza dell’8 marzo arriva puntuale, come ogni anno, a ricordarci che i passi compiuti non sono ancora sufficienti e tanto si deve fare per eliminare ogni forma di discriminazione tra uomo e donna, soprattutto in ambito lavorativo.
L’art. 37 della Costituzione afferma il principio secondo cui “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”.
Il precetto costituzionale, tuttavia, è rimasto per decenni inattuato nel nostro paese, dove il c.d. “gender gap” risulta particolarmente accentuato.
Sebbene vi sia, infatti, una prevalenza femminile tra i banchi universitari e le donne conseguano la laurea prima e con votazioni mediamente migliori rispetto ai colleghi di sesso maschile, la situazione nel mercato del lavoro si ribalta.
Le donne fanno più fatica ad entrare nel lavoro (il tasso di occupazione maschile rimane superiore), accedono prevalentemente a forme di lavoro meno tutelate (tempo determinato) e, soprattutto, guadagnano nettamente di meno degli uomini.
Le principali cause del fenomeno vanno rinvenute della segregazione settoriale (le donne sono più presenti in settori a bassa retribuzione, come la sanità, l’assistenza sociale e l’educazione e meno presenti nei settori STEM – Science, Technology, Engeneering e Mathematics, normalmente meglio pagati) e nel maggiore impegno delle donne nel lavoro domestico, che le porta spesso a sacrificare le ambizioni di crescita professionale (in Italia le lavoratrici madri dedicano più tempo dei partner alla cura dei figli e il 65% dei caregiver familiari sono di sesso femminile).
Proprio allo scopo di ridurre il “gender pay gap” in Italia, il Legislatore ha emanato la recente Legge 5 novembre 2021 n. 162 recante “Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, e altre disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo“.
La novella modifica il Codice delle pari opportunità del 2006, muovendosi su due direttrici: da un lato introduce interventi mirati a contrastare preventivamente il gap retributivo di genere, attraverso misure premiali per le aziende che si adoperano a rimuovere le discriminazioni; dall’altro, promuove la parità salariale attraverso dei provvedimenti volti a favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. In un caso e nell’altro, i soggetti destinatari di tali norme sono le aziende.
Ovviamente, e’ ancora presto per apprezzare l’efficacia delle misure (da alcuni ritenute deboli rispetto alle ben più incisive misure richieste in ambito comunitario) ma la Legge rappresenta, comunque, un primo concreto tentativo di riduzione del gap retributivo, che tanto stride con il principio affermato dall’art. 37 della Costituzione.
La Legge 162/2021, tuttavia, riguarda solo il segmento del lavoro dipendente privato, e non incide, quindi, sull’ambito del lavoro autonomo e delle professioni intellettuali.
Secondo recenti studi condotti dall’Associazione degli Enti Previdenziali Privati, infatti, è proprio nell’area dell’autonomia e delle libere professioni che il divario distributivo di genere si presenta più radicato, attestandosi intorno ad una percentuale di minore guadagno del quarantacinque per cento.
D’altra parte, nel lavoro autonomo e nelle libere professioni non è dato riscontrare alcun intervento normativo volto a eliminare la discriminazione retributiva e, anzi, gli interventi normativi che si sono succeduti negli ultimi anni (dell’abolizione dei minimi tariffari in poi) hanno ridotto il “potere contrattuale” delle fasce più deboli, deprimendo i redditi dei giovani professionisti e delle donne.
Concentrando l’attenzione sulla professione forense, i dati forniti dalla nostra Cassa dicono che, a fronte di una prevalenza quantitativa delle donne Avvocate, la forbice nei guadagni non accenna a ridursi, tutt’altro. Dal Rapporto Censis 2021 risulta che il reddito professionale medio dichiarato nell’anno 2019 dagli iscritti alla Cassa Forense è di circa 40.180 euro e che, a parità di età, il reddito di una donna avvocata è nettamente inferiore a quello di un collega uomo e più si sale nelle fasce di reddito più la presenza femminile va rarefacendosi fino a quasi scomparire nella fascia di reddito sopra i 100 mila euro.
Il fenomeno è, dunque, allarmante e occorre porvi rimedio con misure concrete.
Restando all’Avvocatura le ricette per ridurre il gap sono note da tempo e vanno dal rafforzamento degli strumenti di welfare alle maggiori tutele per la maternità, dall’estensione del legittimo impedimento a tutti gli ambiti della giurisdizione all’affermazione dell’equo compenso nei rapporti con PP.AA. e grandi imprese (se non alla reintroduzione di minimi tariffari), dalla istituzione di asili nido e baby parking negli uffici giudiziari al miglioramento dei collegamenti tra le sedi degli uffici giudiziari, dalla valorizzazione delle specializzazioni al reperimento di risorse destinate alle fasce meno protette dell’Avvocatura (donne e giovani professionisti), dal completamento della informatizzazione della Giustizia al fondamentale riconoscimento del ruolo e della funzione dei Comitati Pari Opportunità.
Il tempo delle parole è ormai finito. Servono i fatti perché la crescita economica e culturale del nostro paese non può che passare attraverso la eliminazione di ogni forma di discriminazione di genere a cominciare dal mondo del lavoro in ogni sua declinazione.
Avv. Alessandro Scalia e Avv. Monica Longo, soci fondatori Unione Avvocatura Siciliana e componenti del C.P.O. dell’Ordine degli Avvocati di Palermo.